Il mosaico del Corpus Domini a Bologna/2

0
1099

Se ora alziamo lo sguardo sopra al crocifisso possiamo vedere come la croce sia inscritta all’interno di due fasci di linee che disegnano un grande calice al cui interno si trova Gesù seduto in trono con a fianco Maria, Giovanni e i santi, qui riassunti in due figure molto care alla devozione bolognese: Santa Clelia Barbieri e San Pio da Pietralcina. Il calice è a sua volta inserito all’interno di due linee oblique che convergono sull’altare. Il senso di questa composizione è chiaro. Nell’eucarestia ci viene presentato il valore salvifico della morte e risurrezione di Gesù che ci ha aperto le porte del Paradiso come Gesù in croce ha detto al malfattore che lì ha riconosciuto la sua amicizia. Ora questa realtà diventa presente e viva attraverso il sacrificio che si compie sull’altare come indicano le due linee oblique descritte con i colori tipici della Trinità. Il rosso che indica la passione del Figlio per gli uomini, l’oro che indica il Padre, la sua eternità nell’amore e nella decisione di voler bene agli uomini senza nessun tipo di ripensamento e il bianco dello Spirito che è luce e dà vita ad ogni creatura.

Tecnicamente qui ci troviamo di fronte ad un mirabile esempio della cosiddetta prospettiva inversa tipica della tradizione delle icone. Nei quadri a cui siamo abituati, le linee convergono verso un punto di fuga che sta dentro l’opera. Queste linee danno il senso della profondità ma anche della fuga verso un punto irraggiungibile, lontano, ove forse è celato il senso di quanto si sta vedendo. La prospettiva inversa invece inverte il modo di rapportarsi allo spettatore; queste linee infatti vengono incontro a colui che sta guardando l’icona o, nel nostro caso, il mosaico. Il loro punto di fuga non è dentro l’opera ma nel cuore di colui che sta guardando. È un geniale espediente compositivo per dire che in questo caso è Dio che viene incontro all’uomo, lui non è in fuga ma, come il padre della parabola del figlio prodigo, corre incontro a colui che lo aveva abbandonato senza nessun altro desiderio che non quello di abbracciarlo, per testimoniargli tutto il suo calore di Padre.

Il calice è segnato da strisce di vari colori, dal bianco dello spirito, al verde della terra fecondata. È il creato che si offre per diventare la materia dell’offerta del Figlio al Padre, per dire che tutto ciò che vi è nel creato può essere utilizzato per rendere grazie a Dio di quanto lui ha fatto per noi.

La raffigurazione del paradiso ci invita ad alzare il nostro sguardo verso la patria che ci attende, con al centro Gesù, la cui mano destra è alzata benedicente per indicare come la benedizione che l’uomo riceve viene dalla Trinità ed è resa presente da Gesù il figlio incarnato, che attraverso le sue due nature si è fatto come noi per farci come lui. È quanto viene espresso nella simbologia delle dita raccolte in due gruppi, nel primo di tre, per richiamare la trinità e nel secondo di due, a indicare le due nature di Cristo. La citazione riportata nel libro che Gesù ha aperto è «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48). C’è una sorta di identificazione tra il nome di Dio, l’ «io sono» che YHWH ha pronunciato al roveto ardente a Mosè (Es 3,16) e la vita. Come dice il libro della Sapienza «Dio è amante della vita» (Sap 11,26), non ha rancore per la felicità degli uomini, non è invidioso ma profondamente interessato alle nostre esitenze in tutti i loro aspetti e non solo a quelli religiosi o spirituali. È l’inventore della vita in tutte le sue forme da quelle più piccole a quelle più grandi perchén lui stesso è vita che non muore. In lui si sazia quel desiderio di eternità, di felicità perpetua che alberga nel cuore di ogni uomo e che spesso i colpi dell’avvesa sorte cercano di smorzare. L’arte ci invita a non abbassare la guardia verso la vera patria.

Ai piedi del crocifisso troviamo poi due figure emblematiche: Abramo con il figlio Isacco nella celebre raffigurazione della legatura o del cosiderto sacrificio e il sacerdote Melchisedek che offre pane e vino.

Le due figure sono simbolo del sacrdozio comune a tutti i fedeli rappresentato da Abramo e di quello ministeriale rappresentato da Melchisedek, che diviene il tipo del sacerdozio di Gesù, che nella sua vita non è stato un sacerdote. Il sacerdozio di Melchisedek, che non ha né padre né madre e che compare solo due volte in tutto l’AT, è stato riconosciuto dall’autore della Lettera agli Ebrei come assolutamente singolare e quindi adatto ad espremere il sacerdozio di Cristo che porta a compimento trasformandolo il concetto di sacedozio dell’AT. Qui il sacerdote offriva animali e suppliche anche per se stesso, ora invece in Gesù abbiamo l’identificazione della vittima e del sacerdote che una volta sola si offre per la salvezza degli uomini. Un autore moderno ci aiuta a capire in che senso il sacrificio di Cristo inaugura un nuovo sacerdozio. Per il filosofo René Girard, le società da sempre sono malate di desiderio mimetico, ovvero del desiderare ciò che gli altri desiderano. Non a caso i comandamenti cominciano proprio dal disciplinare il desiderio della donna e dei beni altrui, desiderare ciò che è di un altro è in fondo imitare il suo desiderio. Questo però genera la lotta e competizione, rabbia e violenza che in tutte le società si è scaricata su una vittima sarficiale, che deve assorbire la violenza accumulata, è il cosidetto capro espiatorio. Ora Gesù si offre come sacerdote e vittima proprio per catalizzare su di sè l’odio del mondo, instillato dall’invidia del nemico. Vuol prendere su di sé il male che gli uomini fanno per far vedere che lui è capace di avvolgerlo di amore e così trasformarlo, per cui come dice Paolo lì dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia di Cristo ( Rm 5,21). Per questo motivo, anche noi nell’eucarestia siamo invitati ad unirci all’offerta del Figlio per presetanre la nostra vita così com’è a lui perchè lui la avvolga del suo amore e la trasformi. Il rito ci dà la forza di compiere questo sacrificio nella nostra vita, che è il vero altare su cui celebrarlo. Per questo accanto a Mechidesedek troviamo Abramo che ora offre a Dio il proprio figlio a testimonianza di due realtà che ha maturato nel suo lungo itirnerairo di relazione con YHWH. Ora può affrontare qualsiasi paura anche quella più trememda di tutte che ancora alberga nel suo cuore: che Dio alla fine si voglia riprendere il dono fattogli. A Isacco che gli chiede ragione della mancanza dell’offerta sacrficale, Abramo risponde dicendo che Dio sul monte provvederà, anche se non sa ancora come e, fino all’utimo, resta aperto ad ogni possibile opzione. La prova è dura perché è dura la paura da sconfiggere, che Dio sia invidioso rivale dell’uomo se non sadico. Dio sta dalla parte dell’uomo sempre anche quendo le circostanze sembrano dire il contrario.

Isacco poi legato nella posizione del crocifisso perché ciò che viene risparmiato ad Abramo il Padre non lo risparmierà a sé, consengnando il Figlio nelle mani degli uomini.

A destra del crocifisso, andando verso la torre del tabernacolo, troviamo raffigurato l’episodio dei due di Emmaus che riconoscono Gesù allo spezzare il pane. C’è un interessante gioco di sguardi tra i due discpoli, Gesù e i fedeli che si trovano nell’aula. Uno dei due guarda Gesù l’altro invece guarda il pane che Gesù ha appena spezzato, come a dire che lui lo riconosce e lo ‘vede’ in quel gesto. Gesù però non guarda nessuno dei due, ma è rivolto verso i fedeli che si trovano nell’assemblea, come a dire che ora anche noi possiamo rifare la stessa esperienza accostandoci al pane spezzato che viene consacrato sull’altare. Gesù è avvolto da un’aura di spirito di vita, il profumo che esala dal pane e dal vino consacrati. Sopra di loro, ancora una ricca decorazione in cui strisce verticali colorate di rosso oro e bianco ricordano i colori della Trinità che si trovano alternate al nero incombente. Una linea trasversale orizzontale taglia queste linee simbolo dell’incarnazione del Figlio che taglia la storia del mondo, introducendo una novità che per ora è custodita nel tabernacolo.

Al centro della scena troviamo poi il tabernacolo di forma ottagonale a ricordo del giorno della risurrezione, del battesimo e della vita eterna. Il tabernacolo nella sua sommità contiene una lanterna ad indicare che l’eucarestia è faro per i passi dei fedeli e rifugio nelle prove e nelle tempeste, così come è fonte di luce per le nostre vite.

Nella parete opposta, troviamo poi un episodio che forse non è mai stato rappresntato nella storia dell’arte. Si tratta del naufragio di Paolo durante il suo trasferimento da Cesarea a Roma, raccontato nel cap. 27 degli Atti degli Apostoli. È un episodio che nell’economia degli atti fa il paio con la rivelazione ai due di Emmaus. Paolo invita i marinai impauriti dalla tempesta a mangiare e celebra per essi un ‘ecurastia. Il messaggio è chiaro le avversità della vita non impediscno di continuare ad avere fiducia in Dio che, tramite il suo amore, comunica agli uomini la forza per affrontare le difficoltà. Questo tema è raffigurato anche nella croce che è l’albero maestro della nave che taglia le linee nere spezzandole, come a dire che ora esse possono essere modificate. Paolo ha dietro di sè un angelo simbolo della Parola che gli suggerisce cosa dire anche nelle situazioni più difficili.

Un angelo poi trova anche rafigurato nell’altare a ricordare il versetto conclusivo del memoriale della prima preghiera eucaristica :

Ti supplichiamo

Dio onnipotente

fa’ che questa oferta,

per le mani del tuo angelo santo,

sia portata sull’altere del cielo

davanti alla tua maestà divina

perché su tutti noi

che partecipiamo di questo altare,

comunicando al santo mistero

del corpo e del sangue

del tuo Figlio

scenda la pienezza di ogni grazia

e benedizione dal cielo.