Nella Chiesa parrocchiale del Corpus Domini di Bologna inaugurata nel 2014 si trova un importante mosaico realizzato da p. M I Rupnik assieme alla comunità. È questa la prima caratteristica di quest’opera straordinaria che misura 250 metri quadrati e che ricopre tutta l’area del presbiterio dell’ampia aula disegnata dall’architetto Spagnoli. Così come il mosaico è fatto di tante tessere che conservano ciascuna la propria identità, come anche i propri spigoli, e che solo assieme formano un disegno armonico, così quest’opera d’arte non è stata vissuta come realizzazione di una committenza ma come un vero lavoro comunitario, che ha coinvolto i parrocchiani assieme al loro parroco, Mons Aldo Calanchi, e la comunità di artisti che fa capo a M. Rupnik. Sia la progettazione sia l’elaborazione sono frutto di una vera opera ecclesiale.

Un secondo motivo mi ha spinto a parlare di questa chiesa. Il 23 maggio 2021 ci ha lasciato mia moglie Daniela a conclusione di un periodo di malattia durato quattro anni. Pur non essendo la nostra parrocchia, lei ha voluto che si celebrasse in questa chiesa quello che lei stessa ha definito come la Celebrazione del rito di accompagnamento all’ingresso alla vita eterna. Ciò a riprova del valore spirituale ed esistenziale e non solo teologico che ha l’arte sacra capace, come poche altre realtà, di infondere speranza e consolazione per tutte le occasioni della vita, anche per le più dure da affrontare, come i riti del passaggio.
Il mosaico, come dicevo, impressiona per le sue dimensioni e per quanto la comunità ha inteso rappresentarvi. La chiesa infatti è dedicata al mistero del Corpus Domini, la festa istituita da Papa Urbano IV nel 1264, particolarmente sentita nella devozione dei bolognesi, che dal 1566 dedicano a questo tema teologico le cosiddette decennali eucaristiche delle parrocchie cittadine.
In particolare poi, come ha detto mons. Aldo Calanchi, con quest’opera all’interno di questa chiesa si è voluto attirare l’attenzione dei fedeli e non solo di loro sulla bellezza della Messa: «abbiamo scelto come soggetto l’Eucarestia celebrata, da presentare non fotograficamente, ma nella realtà divina che in ogni Messa viene ripresentata sull’altare con parole e riti. E della Eucaristia celebrata, in particolare, abbiamo scelto di rappresentare il memoriale, nella versione che troviamo nella prima preghiera eucaristica detta del canone romano. Il memoriale viene subito dopo le parole della consacrazione: memoriale della beata passione e morte di Cristo, della sua gloriosa risurrezione e ascensione al cielo, dove Cristo vive risorto e ci aspetta nella gloria» (E. Stivani, Dall’offerta all’eucaristia, EDB, Bologna 2014, 17).
Il memoriale è quella parte della preghiera eucaristica che collega il momento dell’istituzione dell’eucaristia con la storia della salvezza passata e sopratutto futura. Non è un semplice ricordo, ma una memoria attualizzatrice e performativa di ciò che viene celebrato nel rito come una realtà che accade in quel momento, immettendo nella storia individuale e collettiva una forza che è destinata a rimanere per sempre, perché si tratta dell’amore crocifisso e risorto del Figlio eterno del Padre reso presente dal soffio dello Spirito Santo.

La figura che campeggia al centro della parte absidale del mosaico è un grande crocifisso rappresentato secondo i canoni dell’arte bizantina, con gli occhi aperti, con le braccia distese non contratte negli spasmi della crocifissione ma all’accoglienza, con le vesti sacerdotali, come ricorda la Lettera agli Ebrei, lievemente mosse da una brezza che va da sinistra a destra. È il vento dello Spirito che sta soffiando per trasformare le esperienze di morte di coloro che partecipano al rito in esperienze di vita proprio come ha fatto il primogenito dai morti. Il passaggio dalla morte alla vita è rappresentato in vari modi, che hanno a che fare con l’utilizzo del colore nero. È nera infatti la croce su cui si staglia Gesù, così come il nero è presente nel lato sinistro del crocifisso. Simmetricamente dall’altra parte troviamo il bianco della risurrezione e della luce. Il passaggio è reso possibile dallo Spirito che ha ridato vita al corpo morto di Gesù, così come ora può fare con tutti coloro che si accostano al mistero eucaristico.
La croce è nera perché rimanda al tema della creazione, al buio primordiale da cui Dio ha strappato il mondo attraverso la comparsa della luce, la sua prima opera (Gen 2,3). È quel buio in cui può risprofondare ognuno quando, abbandonando il progetto del Padre, si lascia irretire dalle maglie del peccato. Nessuno però deve disperare perché la risurrezione è proprio la sconfitta di questo buio ed annuncio della possibilità di trasformare nel suo nome ogni situazione, anche la più triste. Il buio della croce rimanda poi al buio delle notti in cui Dio ha operato la salvezza. Oltre alla creazione, abbiamo la notte dell’esodo (Es, 14,20) quella di Betlemme (Lc 2,8), ed infine il grande buio che scese su tutta la terra nel momento della crocifissione (Mc 15,33). Dio non ha avuto paura del buio, nemmeno nelle sue dimensioni infernali. Anche lì è entrato il Figlio affinché, come dice H. U. von Balthasar per quanto uno possa cadere in basso sotto di lui troverà sempre l’abbraccio del Padre che attraverso Cristo ha preso possesso anche delle dimensioni dell’inferno, il luogo della lontananza estrema da Dio.
Il corpo di Gesù risorto è segnato dalla passione come ricordano i fori dei chiodi nelle sua mani e il costato aperto. Questi, assieme al teschio che si trova raffigurato sotto la croce, rimanda al tema di Gesù secondo Adamo (Rm 5,12-20), cioè l’uomo ricostruito secondo il progetto originario del Padre che Adamo aveva sfregiato attraverso la sua disobbedienza. Il teschio rimanda allora alla morte, intesa soprattutto come morte delle relazioni in primis di quella con Dio che il peccato ha introdotto. Il costato aperto rimanda invece alla ferita del lato dell’uomo da cui è stata tratta la donna. Nella Genesi, si dice che dopo l’apertura del fianco per far uscire la donna dal costato dell’uomo la carne è tornata al suo posto chiudendo la ferita (Gen 2,21). Qui il costato di Cristo, il nuovo Adamo, resta aperto per due motivi. Come per l’uomo pensato da Dio, ognuno è fatto per l’altro, diverso ma a lui complementare, così ora Cristo non può stare senza la sua chiesa, la comunità, e in essa ogni individuo, dall’ultimo dei peccatori fino a coloro che si ritengono erroneamente giusti. La chiesa è il luogo dell’accoglienza di tutti come recentemente papa Francesco non si stanca di ripetere. In secondo luogo è da questo costato che sono usciti sangue ed acqua simboli del battesimo e dell’eucaristia i due misteri centrali della nostra fede, perché consentono l’inserimento della nostra vita nella vitalità del risorto. La messa allora non è la celebrazione del ricordo del caro defunto, ma anticipo della vita eterna, farmaco di immortalità per guarire tutte le ferite che ognuno sperimenta a cominciare da quello dello stacco che la morte oggi procura.
Il senso della sua morte è raffigurato proprio da Maria che si trova assieme a Giovanni sotto la croce. Maria è raffigurata con in mano un purificatoio con cui sembra dirigersi verso il costato aperto del Figlio come per raccoglierne il prezioso sangue. L’altra mano invece è posta sulla guancia come se si stesse interrogando sul senso di quanto sta avvenendo. Maria ha avuto una fede senza tentennamenti, però questo non le ha impedito di fare un cammino di comprensione crescente del senso della vita e della morte del suo straordinario figlio. Anch’essa ha sentito tutto lo strazio della morte. Non c’è dolore più grande di quello di una madre che deve assistere al supplizio cruento del proprio figlio. In lei vengono quindi raffigurati e accolti anche tutti i nostri dubbi sulla portata e sul significato salvifico della morte di Gesù ad un primo sguardo così incomprensibile. Eppure è proprio questo il documento, la prova che Dio ci ha fornito. Nella croce c’è una logica, che può essere riconosciuta e apprezzata come paradossalmente per primi si accorgono rispettivamente uno dei due malfattori crocifissi con Gesù (Lc 23, 39-43) e il centurione romano responsabile dell’esecuzione (Mc 15,39). Al alto destro del crocifisso, troviamo Giovanni il discepolo a cui viene affidata Maria. Le sue mani sono alzare in preghiera ma anche come disponibilità ad accogliere il dono. Dopo aver superato la diffidenza nei confronti di Dio: sarà veramente buono? Si interessa veramente a me? C’è la difficoltà ad accettare che le cose stiano proprio così. Paradossalmente la risurrezione ha un che di imbarazzante per i discepoli e per ciascuno di noi, perché se Gesù è risorto vuol dire che ha ragione lui su tutto. Questa è una grande buona notizia perché vuol dire che non c’è più nessuna paura più forte del suo amore che ora mi viene comunicato immeritatamente. L’ultima difficoltà è però, per i nostri cuori malati di individualismo e autosufficienza, accettare che solo lui è il medico, solo in lui c’è la salvezza di cui abbiamo bisogno e che da ultimo non vuol e nulla in cambio. L’atteggiamento di Giovanni ci predispone a questa logica di accoglienza del dono che Dio rinnova per noi in ogni eucarestia.