Giovedì santo: Non mi laverai mai i piedi!
Nella messa in cena domini troviamo il gesto commovente e fortissimo di Gesù che si mette a compiere il lavoro dello schiavo: “si alzò da tavola, depose le vesti, e preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13,5).
La scelta di Gesù coglie tutti impreparati, nonostante siano con lui da più di due anni ancora non lo conoscono. È un gesto di grande intimità come potrebbe fare una madre per i suoi bambini, o quando si accudisce un ammalato in ospedale o la moglie per il marito. Si tratta di toccare una parte fondamentale e delicata del nostro corpo, perché è con i piedi che si cammina che ci si sposta e inevitabilmente ci si sporca.
La reazione di Pietro è emblematica: “Non mi laverai mai i piedi!”. È la paura dell’intimità che si fa gesto, la paura dell’entrare a contatto profondo con Gesù. Pietro l’aveva già sperimentata nel suo primo incontro con il maestro sul lago, quando questi gli aveva chiesto in prestito la barca per parlare meglio alle folle e in seguito gli aveva proposto di prendere nuovamente il largo. Avendolo fatto presero una grande quantità di pesci e anche qui davanti al gesto gratuito e inaspettato Pietro dice a Gesù “allontanati da me”.
Siamo così poco abituati a sperimentare dei gesti gratuiti che quando abbiamo la fortuna di incontrarli subito sospettiamo che ci sia sotto qualcosa e, pur di non rischiare, preferiamo declinare… “non posso accettare”.
Cosa temi di trovare Pietro a lasciarti amare in questo modo?
Forse la morte dell’orgoglio che si scopre, per l’ennesima volta, ferito dal modo di fare di Gesù, inimmaginabile per ciascuno di noi? O forse la paura di scoprirsi amati per quello che si è, così come si è, senza aver nulla da offrire in cambio?
Eppure è questa l’unica via per entrare nella salvezza : “se non ti laverò non avrai parte con me” (Gv 13,8). E Pietro finalmente cede, ripagando la ritrosia iniziale con una disponibilità altrettanto smodata: “Signore non solo i piedi ma anche le mani e il capo!” (Gv 13,9)
Ci vuole del coraggio anche ad accettare tutto quando non si ha niente.
Venerdì santo: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6)
La croce è al centro della liturgia del venerdì santo e di tutta l’esistenza di Gesù. Nei vangeli, in quello di Luca in particolare, si dice che Gesù “doveva morire”. Cosa significa? Nella storia della teologia sono state date molte risposte, che poi si sono sedimentate nel vissuto di molte persone, generando spesso degli equivoci pericolosi e dolorosi.
Gesù non muore per pagare un prezzo al Padre, per soddisfare la sua sete di vendetta o di riparazione dopo la rottura causata dal peccato, perché Gesù e il Padre operano di comune accordo e nello stesso modo: l’uno non è il nemico dell’altro (“chi ha visto me ha visto il Padre” Gv 14,9).
Ancora meno Gesù deve pagare un prezzo al diavolo, che in questo modo sarebbe elevato al rango del vero vincitore, mentre il Nemico è lo sconfitto, colui che viene precipitato giù dal cielo (Ap 12,9), colui che è gettato fuori (Gv 12,31) perché ormai esautorato dal suo trono.
Perché allora Gesù “deve” morire?
Per un motivo molte semplice: perché Gesù ha dichiarato a Giuda, e in lui a ciascuno di noi, che è disposto a qualsiasi cosa, pur di rimanergli fedele e amico, stipulando così la nuova ed eterna alleanza. E’ disposto anche a morire pur di non interrompere il folle progetto di tradimento dell’amico Giuda.
Se Giuda fosse andato sotto la croce e Gesù fosse sceso, come gli stanno chiedendo tutti (noi inclusi), in quel momento cosa avrebbe visto?
Avrebbe visto cosa ferma anche Gesù e avrebbe potuto dire: “hai visto! Neanche tu hai mantenuto fede alla tua promessa, come, del resto, era prevedibile: chi è disposto a sopportare tutto questo, ad occhi aperti, per un traditore?”
E invece Gesù non si ferma: ha detto che non fermerà le conseguenze delle scelte di Giuda e lo sta facendo. Se Gesù non fosse andato fino in fondo, fino alla morte, ciò che lo avrebbe fermato sarebbe più forte del suo amore e della sua disponibilità e sarebbe in definitiva il vero Dio.
Ma questo non è accaduto e la morte di Gesù ha mostrato che l’amore può tutto, perché “forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!” (Ct 8,6)
Il grande silenzio
Il giorno del sabato santo è il giorno del grande silenzio, in cui si ricorda un mistero poco conosciuto in Occidente: la discesa agli inferi di Gesù. Adrienne von Speyr, una delle più importanti figure della mistica del secolo scorso, ha detto che solo dopo il Novecento con la sua scia di orrori l’umanità è in grado di comprendere la portata di questo mistero, ben conosciuto nella tradizione orientale oltre che essere un articolo del Credo.
Cosa vuol dire che Gesù è sceso agli inferi?
Il linguaggio è altamente simbolico perché l’inferno non è giù al centro della terra così come il cielo non indica una qualche galassia. L’inferno è la dimora dei morti, è il luogo della seconda morte, quella del peccato, della rottura con Dio. Nella Prima Lettera di Pietro, si dice che Gesù scende, nello Spirito, lì dove erano prigioniere le anime di coloro che erano morti prima di lui, per annunciare loro la buona notizia della salvezza (1Pt 3,19).
Il teologo von Balthasar dice che questo discendere non è un’attività di Gesù, perché nel sabato santo lui è realmente morto e riceve la vita, per non perderla mai più, solo a partire dal primo giorno dopo il sabato, il giorno della risurrezione.
Come la Madre tiene in braccio il corpo del Figlio deposto dalla croce, così è lo Spirito che porta Gesù nel regno dei morti, per far vedere al suo signore, il Nemico, di cosa è stato capace il figlio dell’uomo. La salvezza che si è manifestata sulla croce si sta dilatando ben oltre i confini di Gerusalemme.
Gesù sta portando a compimento quello che aveva fatto ritualmente nel suo battesimo: entrare nelle acque di morte per esserci vicino in tutto. Come ha detto efficacemente Joseph Ratzinger: “Il battesimo di Gesù viene così inteso come compendio di tutta la storia, in esso viene ripreso il passato e anticipato il futuro. L’ingresso nei peccati degli altri è discesa ‘all’inferno’ – non solo come in Dante, da spettatore, ma con-patendo, e, con una sofferenza trasformatrice, convertendo gli inferi, travolgendo e aprendo le porte dell’abisso” (Gesù di Nazareth, 40)
Cosa significa tutto questo per noi?
Che ormai non esiste più condizione di abbandono di desolazione, di inferno in cui non sia possibile incontrare Gesù che «Voleva sprofondare sì a fondo che ogni cadere sarebbe stato un cadere dentro di lui. E ogni rigagnolo dell’amarezza e della disperazione sarebbe d’ora in poi defluito giù fin al suo abisso più profondo. Nessun combattente è più divino di colui che è in grado di vincere con la sconfitta» (H. U. von Balthasar, Il cuore del mondo, 29).
Il vangelo della risurrezione “Vide e credette”
La buona notizia della risurrezione di Gesù comincia con una constatazione: il sepolcro è vuoto. Cosa significa? Potrebbero aver portato via il cadavere oppure è vero quello che lui stesso aveva preannunciato, “cominciando a insegnare che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,31)
Se Gesù è veramente risorto per noi cosa cambia? Tutto ciò che di brutto è stato fatto a Gesù è ora trasfigurato, quindi anche il nostro sepolcro personale può essere vuotato. Ognuno di noi, infatti, ha un proprio sepolcro dove seppellisce quanto di brutto abbiamo o ci è stato fatto, a torto o a ragione. Ognuno ha una riserva di azioni, stati d’animo, comportamenti su cui letteralmente ha messo una pietra sopra, perché ritiene che siano immodificabili.
Se Gesù è risorto vuol dire che non solo risorgeremo nell’ultimo giorno, ma che già da oggi i nostri sepolcri si possono aprire per scoprire che in Lui è possibile trasfigurare e ridare senso ad ogni esperienza, anche a quelle più terribili o vergognose.
Maria corre ad avvisare Pietro e l’altro discepolo quello che Gesù amava. Entrambi corrono ma è il discepolo anonimo ad arrivare per primo. Il gesuita Francesco Rossi de Gasperis (in E’ risorto non è qui. Lectio sui vangeli della risurrezione, Pardes 2008) ci invita a non aver fretta di voler identificare subito questo discepolo con Giovanni. È un discepolo anonimo che ci ricorda che davanti alla risurrezione siamo tutti sulla stessa linea e ci arriva prima non chi è più titolato, ma chi ama di più.
Questo discepolo aspetta Pietro, entrambi vedono i segni, il sudario piegato, ma solo lui ‘crede’. E’ quell’intelligenza che deriva dall’amore, che sa collegare tutti i fili del modo di morire di Gesù. Nel suo modo di fare si è manifestata infatti una necessità, una sorta di teorema spirituale: “Gesù doveva risorgere dai morti” (Gv 20,9). Doveva risorgere perché nessuna delle armi con cui la morte e la paura ci dividono gli uni dagli altri gli hanno impedito di rimanere in comunione con tutti. È la nuova ed eterna alleanza siglata dal suo sangue e ratificata dal Padre con la risurrezione del Figlio.
Quel giorno dopo il sabato è veramente il primo di una nuova settimana, ha inaugurato un nuovo modo di fare, ha ridato senso a ogni esperienza, anche a ciò che tutti vorrebbero cancellare: i propri errori.