Dire che Gesà regna dalla croce può sembrare un’affermazione assurda. Eppure la tradizione antica dei padri aveva ben inteso che una morte siffatta ha già in sé i germi della risurrezione, in quanto è una morte che ha reciso tutti i legami che ordinariamente imbrigliano la vita. È cioè una morte piena di vita, piena di quella vita paradossale che è l’amore per i propri nemici (Mt 5,44) e per i propri amici (Gv 15,13). È questo infatti il contenuto delle parole di Gesù in croce che prega per i propri crocifissori: «Padre, perdonali, poiché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) ed anche ciò che Gesù dice al malfattore, che ha intuito il senso della sua morte: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,41).
Per questi motivi è la croce l’unico “spettacolo” («theoria» dice Lc 23,48) che il cristiano è invitato a contemplare incessantemente. Il testo lucano (Lc 23) con grande sapienza narrativa nei vv. 35-39 ci presenta in sequenza tutte le tentazioni salvifiche inefficaci: quella religiosa invocata dai capi, quella politica rappresentata dai soldati e quella personale espressa dal malfattore che bestemmiava Gesù. La prima è quella forse più difficile da smascherare e da abbandonare. Eppure, dice Fausti: «un Dio crocifisso ci salva innanzi tutto da dio. Dal dio tremendo che risponde alla violenza con la violenza, che ha a disposizione tutto e tutti, ma non è disponibile a niente e per nessuno, capace di salvare se stesso e dannare gli altri ». È questo un dio spesso invocato soprattutto davanti allo scandalo del male nel mondo. Di fronte ad esso sta invece il Dio crocifisso: «un Dio – l’unico vero Dio, del quale non c’è altra immagine adeguata, perché è per noi la più blasfema! – che si mette nelle mani di tutti e serve tutti in mitezza ed umiltà, un Dio che dona tutto, anche la propria vita a noi che gliela togliamo!»(S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca). Solo rimanendo sulla croce, e non scendendo da essa come tutti vorrebbero, Dio salva ciascuno dalla morte «perché lui ci salva non dalla morte, bensì nella morte; e non salvando, bensì perdendo se stesso. Se lui non entrasse nella nostra morte, questa resterebbe per noi la minaccia suprema. Ma se lui è presente nella nostra morte, essa non è più separazione, bensì comunione con la sorgente della vita» (p. 67). È questo quello che hanno compreso in questo contesto uno dei due malfattori (Lc 23,40-42) ed il centurione (Lc 23,47), che si possono considerare i primi due veri teologi cristiani: «il centurione, dopo il malfattore, è il secondo teologo cristiano… È modello di ogni credente: sa perché e per chi il Signore è morto. Lo sa perché l’ha ucciso lui, mentre egli intercedeva per i suoi crocefissori e dava la vita per loro»(S. Fausti, op. cit). Rimettersi davanti a questo spettacolo, con pazienza e attenzione, è l’unica strada per essere liberati dagli idoli e dalla paura che ci rende schiavi (Eb 2,14).